Rivolte sociali sempre più frequenti si diffondono per il pianeta con tratti «anonimi e tremendi». Anonimi perché non sono governati da alcuna direzione e rappresentanza politica univoca. Tremendi perché hanno per espressione una furia distruttrice dei poteri costituiti senza avere per finalità una rivoluzione capace di promuovere nuovi e alternativi poteri costituenti. Possiamo cioè dire che accanto ai fenomeni della globalizzazione e della informatizzazione della vita, lo scenario del nuovo millennio presenta lotte politiche di massa che assumono spesso la forma del sollevamento, del tumulto, della rivolta. Da Occupy Wall Street a Black Lives Matter, dalle insurrezioni arabe all’occupazione di Gezi Park in Turchia, dalle giornate indipendentiste barcellonesi ai gilet jaunes francesi si assiste a una sorta di globalizzazione anche delle rivolte. Nei loro confronti l’ambito teorico e politico marxista ha sempre posto domande riguardanti il loro esito e le loro conseguenze, e la conclusione è sempre stata a dir poco ambigua, quando non marcatamente negativa: pur nella loro capacità di manifestare le contraddizioni della società, esse rappresentano l’irrazionale e il contingente nella storia che vanno superati con l’azione organizzata, razionalizzata e proiettata nel tempo. Ma è questo l’atteggiamento giusto? O non si dovrebbe invece cercare di mettere in dubbio questa valutazione e ripensare la rivolta per sottrarla a un’idea di pratica e di storia vincolate a uno sviluppo lineare?
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