Nel pensiero politico moderno, l’appello alla natura umana è stato in genere prerogativa di autori catalogati, più o meno frettolosamente, come «conservatori» o «reazionari». La spiegazione è semplice. È impossibile costruire ipotesi sulle invarianti biologiche della nostra specie, senza scontrarsi con la pericolosità dell’uomo, col «cosiddetto male», con l’eccesso pulsionale e la carenza di inibizioni e limiti istintuali di cui il cannibalismo primitivo è l’illustrazione canonica. Evocare la «natura umana» vuol dire quindi, innanzitutto, esigere che le istituzioni politiche, e in primo luogo lo Stato, si accollino l’onere prioritario di inibire le pulsioni in eccesso, reprimere la pericolosa devianza della specie e imporre l’ordine e la norma per tenere a freno il caos.
È tardi, dopo il secolo dei genocidi, per opporre a questa visione un’illusoria bontà o socievolezza naturale dell’uomo. Ma è anche tardi, nell’epoca del declino inarrestabile della statualità, per compitarne passivamente la lezione. La sezione monografica di questo fascicolo tenta, invece, di valutare se il quadro antropologico tracciato un tempo per legittimare la sovranità statale non possa essere approfondito e riscritto in una logica diametralmente opposta, per aprire la strada a forme di istituzione politica di tipo post-statuale; se la pericolosità naturale della moltitudine – vera: non illusoria né ideologica – non abbia trovato, in fondo, proprio nello Stato il suo segreto catalizzatore, e se non siano tutt’altre le modalità realmente in grado di tradurre questa potenza negativa in una capacità potenziale di dare forma alla vita.
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