Benché i riti differiscano radicalmente da una cultura all’altra, non vi è cultura (né società, né vita umana) senza riti. La prassi rituale è un universale antropologico, un tratto distintivo della specie homo sapiens. I riti in genere, e quelli religiosi in particolare, esibiscono una zona di indistinzione tra biologia e cultura, rievocando così niente di meno che l’antropogenesi, ossia il processo di formazione della nostra specie. Per questo, una filosofia naturalistica non derisoria o velleitaria deve misurarsi a fondo con l’esperienza religiosa. Ben sapendo che l’attendono al varco un buon numero di paradossi. Come spiegare, per esempio, che nel rito la prassi e il linguaggio si scambino i ruoli, sicché ogni azione comunica come un simbolo e ogni discorso ha il valore performativo di un gesto? E come spiegare il fatto che, per dare forma a un mondo umano, il rito debba mettere regolarmente in scena la perdita di ogni forma, accentuando cioè quel caos che pure si propone di contenere? Queste domande, lungi dal rinviare a una situazione arcaica, riguardano da vicino il modo di essere permanente dell’«animale che ha linguaggio». Di più: l’indagine naturalistica sul rito concorre non poco a chiarire la crisi delle istituzioni contemporanee, insomma il dissesto e la riorganizzazione di ciò che chiamiamo sfera pubblica.
Il volume contiene un testo inedito di Gilbert Simondon sul rapporto tra tecnica e religione, nonché alcuni contributi che, a partire dalle analisi di Simondon, intendono affinare l’analisi degli aspetti «preindividuali» e «transindividuali» nell’esperienza umana.
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