Nell’ultimo scorcio del Novecento, mentre la previsione debordiana della società dello spettacolo si è pienamente realizzata, s’installa al centro della scena mediatica una sorta di mitologia dell’immateriale, intrisa di venature neo-mistiche. Fantasie seducenti, gonfiate ad arte dai media in un clima di neoliberismo rampante: quel clima vede l’irruzione, nella sfera della produzione, delle tecnologie informatiche e sembra segnare la fine dei processi di reificazione.
Invece, proprio queste nuove tecnologie riportano in campo la tematica dell’alienazione del lavoro. Non a caso, quasi in parallelo con l’irrompere a livello planetario dei nuovi movimenti sociali, il pensiero più avvertito si accorge che proprio il progetto digitale del tardo capitalismo rimette in gioco il “vecchio” tema marxiano del feticismo, quella teoria ormai considerata da molti una pura fantasia filosofica. Con il consolidarsi del cosiddetto postfordismo viene in primo piano ciò che è ovvio: che la sofisticata macchina digitale non è meno reificante della catena di montaggio fordista. E che proprio il “lavoro immateriale” è il più reificato perché è quello più subalterno alla tecnica e alla “merce immateriale” che produce.
Si tratta, allora, di chiedersi cosa avviene quando lo spettacolo della mercificazione globale si riversa con irrefutabile evidenza proprio contro quelle moltitudini di individui “comunicativi” che vivono sulla propria pelle l’esperienza di una generale precarizzazione del lavoro e della vita.
Di qui la tesi centrale di questo saggio: per tentare di rispondere a tale interrogativo, il pensiero critico dovrà sottoporsi a un duro lavoro di scavo e di aggiornamento della figura marxiana apparentemente più semplice, in realtà più complessa e indigesta, ossia la figura della forza-lavoro, che contiene in sé tutto il segreto del modo di produzione del capitale.
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